Ricorrono oggi i 50 anni dal golpe di Augusto Pinochet in Cile, 50 anni dalla morte del Presidente Salvador Allende. Ed a 50 anni di distanza, il governo degli Stati Uniti ha desecretato vari documenti, pubblicati nei giorni scorsi dal Guardian, concernenti le implicazioni del governo di Richard Nixon e dell’allora consigliere Henry Kissinger nel golpe militare e nei precedenti tentativi di impedire l’assunzione del mandato da parte di Salvador Allende. Allende è morto, Pinochet è morto, i giovani che vissero quella meravigliosa primavera politica sono ormai anziani e molti sopravvissuti di quei giorni terribili stanno a poco a poco lasciando questo mondo. Sarà importante per gli storici lasciare in chiaro le responsabilità e dare un nome e un cognome ai responsabili di tanto dolore ma mettiamoci nei panni di chi ha vissuto sulla propria pelle quell’orrore. Tralasciando il fatto che i maggiori responsabili sono morti da tempo e che Henry Kissinger a 100 suonati non andrà mai né a processo né in prigione, avere questi documenti 50 anni dopo, con notizie che peraltro sono segreti di Pulcinella, sanno più di beffa che di aiuto.
Eppure abbiamo qualcuno che ha inventato uno strumento per poter ricevere documenti scottanti su fatti di pubblico interesse in tempo reale: Julian Assange e la sua creatura WikiLeaks. Grazie a lui abbiamo potuto conoscere i misfatti ed i loro autori quasi in tempo reale e comunque con gli autori ancora in vita e processabili. Ed è forse proprio questo il peccato più grande che gli Stati Uniti non gli perdoneranno mai: l’essere inchiodati alle loro responsabilità dai loro contemporanei, il venir giudicati dalla storia mentre i responsabili siedono ancora nelle proprie poltrone, loro che fino alla fine hanno protetto il loro burattino d’oro Augusto Pinochet (uno dei pochi a finire i suoi giorni nel proprio letto, forse l’unico) e che l’hanno sempre fatta franca.
A proposito di quest’ultimo, quando egli venne arrestato nell’ottobre del 1998 a Londra in seguito alla richiesta di estradizione avanzata dall’allora giudice Baltazar Garzon per le 94 denunce di tortura di cittadini spagnoli e l’assassinio nel 1975 del diplomatico spagnolo Carmelo Soria, nonostante gli atroci crimini commessi, non trascorse i 17 mesi di attesa della decisione dei britannici in un carcere di massima sicurezza come Assange. Li trascorse nella lussuosa residenza del Wentworth Golf Club & Resort, dove veniva a trovarlo premurosamente Margaret Thatcher. E con altrettanta premura il Ministro dell’Interno del Regno Unito, il laburista Jack Straw, il 2 marzo 2000 decise di liberare Pinochet e di permettere il suo ritorno in Cile, negando quindi l’estradizione e adducendo “ragioni umanitarie” e verosimilmente avvisandolo prima di rendere noto alla stampa il suo verdetto, visto che nella notte, un aereo militare cileno era giunto nella pista di Waddington, allestito con le attrezzature mediche del caso, pronto a decollare per riportarlo in patria. Pinochet ovviamente una volta atterrato con un gesto atletico, come un novello Lazzaro, si alzò dalla sedia a rotelle e salutò i sostenitori accorsi all’aeroporto.
Assange invece, senza aver mai torto un capello ad alcuno, in serie e veritiere precarie condizioni di salute fisica e mentale, langue in un carcere di massima sicurezza, in mezzo a detenuti pericolosissimi, in attesa delle decisioni dei giudici.
E ci giunge proprio in queste ore la notizia che la decisione dell’Alta Corte britannica circa l’istanza d’appello, presentata dai legali di Assange per scongiurare la sua estradizione verso gli Stati Uniti, dovrebbe essere resa nota a strettissimo giro.
Temiamo che l’esito sia negativo ma non possiamo arrenderci, quando a brevissimo verrà annunciata la pubblicazione della decisione dell’Alta Corte, dovremo scendere in piazza in massa per Julian Assange per far pressione con ogni mezzo sul governo britannico.
In ogni luogo del mondo i cittadini scenderanno in piazza affinché, per una volta, nel suolo britannico vinca la giustizia e si ponga fine all’ingiusta detenzione di un giornalista, la cui unica colpa è quella di aver fatto il suo lavoro.
Marianella Diaz
Free Assange Italia