Una delle tappe del gruppo Free Assange Italia si è tenuta martedì 17 maggio, nei pressi dell’Ambasciata del Regno Unito di Roma. Un luogo simbolico, rappresentante il potere costituito britannico, lo stesso “potere segreto” che dall’11 aprile del 2019 sta tenendo il giornalista Julian Assange in una cella nel carcere di massima sicurezza a Belmarsh.
Una tappa di un percorso che va avanti da un paio di anni, e che ha visto nel luogo di ieri la maggior raccolta di adesioni di sigle ed organizzazioni. Con la presenza di Amnesty International – che ha organizzato l’evento – e con formazioni partitiche diverse ma concilianti, con un’unico obiettivo: quello di chiedere la liberazione di Assange, e di opporsi alla sua estradizione nel carcere di massima sicurezza, l’ADX Florence, in Colorado, negli USA, e per giunta con una pena massima fino a 175 anni di carcere.
Più volte, durante il sit-in di ieri, è emersa una grande rabbia, sana, un senso di riscatto da parte dei presenti, ma anche di profonda amarezza per il silenzio, anzi, l’omertà che coinvolge i più per una battaglia come questa.
WikiLeaks, ma soprattutto il suo co-fondatore, Julian Assange, sono stati vittime e continuano a subire delegittimazione per le azioni encomiabili che hanno compiuto, ma come ho specificato nel mio intervento, un danno enorme che si può arrecare alla vicenda è anche quella di minimizzarla, di derubricare, quindi, le nobili gesta di Assange ad un semplice e abituale fatto di poco valore. Questo, volente o nolente, è un enorme regalo a chi non vede l’ora di tenerlo nei carboni ardenti – per lo più, quelli a stelle e a strisce – fino alla fine dei suoi giorni.
La via crucis, anche giuridica che gli stanno facendo passare non è altro che la punizione – lenta, ma costante, per quanto crudele e disumana – di quello che, nei suoi confronti avrebbe voluto fare la CIA, la stessa organizzazione criminale che già nel 2017 stava escogitando un piano per rapirlo ed assassinarlo.
L’evolversi di questa drammatica e assurda vicenda, e di tutto quello che comporta, dal 18 maggio fino al prossimo 31 maggio 2022 è nelle mani del ministro degli interni britannico Priti Patel. Spetterà a lei, insieme al governo di Boris Johnson, la decisione politica dirimente. Sarà la sua eventuale firma a decretare o meno la condanna a vita ad Assange, il principale giornalista vivente, come mi piace definirlo. E per quello che rimane di quella che abbiamo sempre considerato come la libertà di stampa. Una categoria i cui “adepti”, almeno per la maggior parte hanno fatto di tutto per dimostrare la propria “confusione”, sostituendo il proprio dovere deontologico, con quello tipico dei mercenari di guerra: la fedele obbedienza agli interessi imperialistici dell’occidente e degli USA. “Estradarne uno, per colpirne cento”. Questo si è dimostrato essere il reale primo emendamento della costituzione degli USA.
Se Assange verrà estradato, sarà non solo per colpa di chi era deputato a fare certe scelte volte a scagionarlo, e avrà invece deciso di mandarlo al patibolo. Ma anche, se non soprattutto, di coloro che, nel mondo della politica, dell’arte e dello spettacolo, dell’accademia, della cultura, dello sport, del cinema e di tutte le restanti classi sociali, sono rimasti seduti, invece di salire sul proprio banco e di manifestare la propria ribellione, come nel film “l’attimo fuggente”. Di chi aveva la voce potente, la lingua allenata a battere il tamburo. Di chi aveva, quindi, la voce potente, adatta per il vaffanculo, come cantava Faber. Ma che ha preferito svolgere il ruolo della “salma”, firmando la sua condanna a morte.
17 maggio 2022
di Francesco Maggiurana
di Free Assange Italia